Mal di podere

1988

Questo autodramma ha un titolo esplicito come forse nessuno dei precedenti: “Mal di podere”; e non lo tradisce. Il podere, secondo i monticchiellesi e il loro coautore regista Andrea Cresti, contrariamente a tanta letteratura bozzettistica, era “promessa maledizione”, e se era studiato con accorgimenti intelligenti dai suoi costruttori, ciò avveniva per la sua funzionalità in vista del profitto del padrone. Onde il suo “male”. Il pericolo di un debordamento in certo teatro anni sessanta era possibile. Ma il copione lo evita; tiene presente soprattutto il teatro; e pertanto il podere, nel suo male (con qualche relativo bene) è un motivo per spaziare in una delle più angoscianti o esaltanti problematiche dell’uomo postmoderno, anzi: postmoderno (perché del primo se ne scrive dal 1981, quando Letoyard pubblicò il suo saggio). Il podere è metafora della casa “come luogo delle beatitudini” e delle torture. Da questo punto prende l’avvio uno dei testi più elaborati e interessanti della teatralogia monticchiellese, che costituirà, sulla piazza, un banco di prova della maturazione e della evoluzione della comunità locale, gran parte della quale non è nata nel podere, ma in paese e “dopo il podere”.

A questo punto avvertiamo il nostro lettore e prossimo Spettatore: non si spaventi, non ci sarà un reticolo socioideologico, antropologico, magari filosofico; non ci sarà quello e basta; e non ci sarà la rabbia, o non solo quella, per i ricordi e per le possibili prospettive (il tentativo dei nuovi “padroni” cittadini, di “sfruttare” il ristrutturamento dei poderi e magari i loro nuovi-vecchi abitatori, già ipotizzato per il borgo diciannove anni fa in “Sei secoli fa, oggi e domani”). Ci sarà il ricordo anche tenero di una vita di sacrifici, ma anche di dolcezze del dolore e dell’amore (per la casa, brutta o bella, piccola o comoda, per la terra, dura e avara ma anche generosa); ci sarà la rappresentazione di “quella” vita e di “quei” tempi. Tutto intrecciato con i tempi di oggi e di domani, anch’essi rappresentati come il vero teatro, ormai multimediale anche a Monticchiello, comanda: diapositive, colonne sonore non casuali, intenzionali interpolazioni, di voci extra-testo. E non diciamo di più. Aggiungiamo che il copione è serio anche per la ricerca filologica, storica e architettonica che è stata fatta. Insomma: volontà di un autodramma “importante”, con un grumo esistenziale che conferma la vitalità e la voglia di esistere dei monticchiellesi in anni che sono definiti a-vitali, a-esistenziali, a-ideologici e che quindi preoccupano.

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