La prima rappresentazione in cui il Teatro Povero prese il volo, pur avendo iniziato da un paio d’anni a farsi le ossa nelle piazze, avvenne la notte del 20 luglio 1969; per coincidenza fortuita e significativa, proprio in quelle ore tre astronauti portarono allora per la prima volta l’umana curiosità a spasso su un suolo, quello lunare, mai prima di allora calpestato.
L’’allunaggio fu salutato ovunque come una potenziale premessa a un’epoca di grandi conquiste: ancora una volta, quelle “magnifiche sorti e progressive” parevano doversi avverare.
Allo stesso modo, passando dal grande al piccolo, un medesimo ottimismo sembrò sbocciare quella notte dall’inizio dell’avventura teatrale in quel piccolo borgo della Val d’Orcia, allora valle spopolata e desolata, lunare davvero, nelle sue crete da secoli appena ingentilite da stuoli di mezzadri sofferenti ma operosi. Il primo ‘autodramma’ portò in piazza la riproposizione della gloriosa battaglia partigiana avvenuta nel borgo il 6 aprile del 1944.
Epopee e speranze a diversa scala, dunque. Speranze, va detto, seguite da inesorabili disillusioni: perché l’epoca successiva ci ha donato sì meraviglie, ma anche, purtroppo, nuove sofferenze e storture, strozzature dell’uomo sull’uomo e di questo sulla natura… Per arrivare, venendo all’oggi e alla parte ‘agiata’ del globo, la nostra, a una certo ammirevole e appagante eccedenza di tutto: merci, consumi e feticci. Una bulimia nella quale comincia però a farsi strada un vago senso di troppo, il dubbio che l’ostentata felicità dell’abbondanza nasconda anche inevitabili quote d’insensatezza, cui si accompagna anzi la percezione dell’incombere di una qualche forma di ritorsione per il di più, per l’eccesso, per il tracimare di cui abbiamo fatto regola comune e unica: sono scricchiolii di allarme, quelli della natura e del clima, che molti del resto preferiscono bellamente ignorare o direttamente negare in modo risoluto.
Eppure… Eppure se qualcosa davvero dovesse andare storto, se un domani fossimo costretti a una più radicale, estrema, definitiva partenza, a un abbandono coatto della nostra terra come quello cui furono obbligate generazioni di mezzadri, così come oggi accade ogni giorno a tante e tanti solo per aver avuto in sorte di nascere ad altre latitudini, ebbene, solo allora, forse, saremo in grado di porci infine il quesito: cosa voglio con me? Di cosa ho davvero bisogno? A cosa non posso rinunciare? Di quale superfluo non posso fare a meno, affinché non debba ridurmi all’essenziale?
Coloni, ieri come oggi, necessariamente in marcia.
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