1991

1991

Il primo spettacolo di Monticchiello avvenne nel 1967. Nel 1970 nacque la definizione “Teatro Povero “e fu precisata la formula dell’a autodramma. Ma la vera vita di questo che fu definito quasi subito ‘fenomeno teatrale, sociale, antropologico ‘da mezzi di comunicazione e da un ‘opinione pubblica non ancora abituata all’attuale inflazione di manifestazioni, cominciò venticinque anni fa.

Sulla ricorrenza, sul “giubileo “, potevano essere impostate celebrazioni, anzi, autocelebrazioni, e lo stesso autodramma nel 1991. Invece, semmai, proprio in questo testo, inizialmente, vi si fa dell’autoironia. Ed è l’ennesimo “segno di distinzione “del vero Teatro Povero, che non si confonde con le “rassegne”, i festival, gli “stages” ricchi di mezzi finanziari e di clamori che risuonano anche in Toscana, a pochi chilometri l’uno dall’altro.

Anziché celebrativa, la rappresentazione del 1991 è riflessiva come poche altre. Riflessiva sul momento che viviamo, sull’inquietudine che patiamo, sulla pace che non abbiamo. Anche i discorsi e gli spettacoli sulla pace sono stati tanti, soprattutto, e giustamente, quando incombeva la guerra. Ma quello preparato a Monticchiello per il 20 luglio (fino al 4 di agosto) affronta l’argomento senza retorica e, direi, senza legami con la contingenza (anche se i riferimenti a ciò che è successo nel Golfo sono precisi); lo affronta forse con più riflessione ed escavazione dialogica di altre volte, ma sempre calando il dibattito nell’evento teatrale e con la formula consueta. E così assistiamo, nel bellissimo secondo tempo, all’episodio del disertore nascosto durante la guerra mondiale, alla paure e alla fierezza della famiglia contadina, alla rassegnata e svogliata ricerca dei carabinieri, alla gente di Monticchiello che cerca di esorcizzare l’angoscia e la paura del conflitto (in altri tempi le battaglie erano leggende e si cantavano a veglia e nelle aie).

Assistiamo ai lavori dei campi mai sospesi, alla coglitura delle olive; nemmeno la paura e la guerra arrestano tali lavori. Il primo tempo, ci aveva riportato dal passato al presente. E su questa realtà, tutt’altro che improntata alla pace, si medita, si agisce e si soffre.

Maria Rosa Ceselin, Andrea Cresti (anche, come al solito, regista), Marco Del Ciondolo e Vittorio Innocenti, estensori del testo ideato, discusso ed elaborato con tutta la compagnia del Teatro Povero, cioè con tutta la comunità di Monticchiello, offrono al pubblico e ai critici uno degli autodrammi più difficili e impegnativi, in cui il ricordo di vecchi valori e di vecchie sofferenze e il sorriso di antiche, intime, umili dolcezze, si mescolano a paure nuove e a dubbi maceranti. Ciò non significa che quello del 1991 sia uno spettacolo disperato; è invece una provocazione a considerare con serietà e profondità i pericoli e i problemi inattesi che la società si trova ad affrontare nell’ultimo decennio del secolo, anzi del millennio, nel microcosmo di Monticchiello come dovunque

 

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