2013: un moto continuo, un’ondata di scosse in profondità senza assestamento in vista, prolungata oltre ogni aspettativa. Le fondamenta scricchiolano, spinte dal basso, un passo alla volta. Un rumore di fondo cresce fino a imporsi su tutto. In un vuoto pneumatico avviene questo sommovimento: lento, maestoso. Inesorabile e freddo come una curva statistica. Sgretolamento? Forse anche frana, infine: da cui potrebbero però liberarsi nuove energie.
Inizia cosí il quarantasettesimo autodramma del Teatro Povero di Monticchiello: con il crollo di un palcoscenico, nel silenzio. Cui segue, immediata, la necessità di provare a passare oltre. Inventare un futuro potenziale, per quanto piccolo. Come un’esigenza istintiva cui sia impossibile opporsi.
Ecco dunque una famiglia, nucleo comunitario di base, ingegnarsi per far fronte a una vita che è nuova e al tempo stesso antica: povertà e scarsità di risorse tornano dopo breve parentesi, poche generazioni soltanto, quando il loro racconto è ancora moneta che passa di tasca in tasca. Ecco l’ottimismo di alcuni: ingenuo ma vitale, giovane. Allegretto nonostante tutto. Inevitabilmente in collisione col risentimento di altri, disorientati piú che cinici. Ecco una comunità che prova a raccogliersi: attorno al misterioso ostinato silenzio di una vecchia discendente, simbolo anche suo malgrado e non per questo meno necessario. E attorno alla strana storia di un “popolo dei vinti” in cui forse rispecchiarsi… Sempre che si abbiano forza, determinazione e fortuna sufficienti a fronteggiare i propri incubi: le vivaci, rigogliose presenze che si agitano nel sottopalco di ciascuno. Perché il vero problema, come sempre, sarà resistere a se stessi.