Le assemblee della Compagnia e degli abitanti hanno iniziato da gennaio a discutere i possibili temi, le scalette e infine il copione dello spettacolo. Una lunga fase di gestazione in cui si mescolano dimensioni lontane: storie di vita, memorie, echi del dibattito pubblico e politico… Quest’anno dal confronto emergeva un dedalo di ansie oscure verso il futuro e il presente; le preoccupazioni dei giovani come delle precedenti generazioni, ciascuno in difficoltà a decifrare le narrazioni dell’oggi, a metterle in prospettiva rispetto a modelli interpretativi del passato, pure solo recente. E ancora: senso di sfiducia verso le figure dei padri, in chiave generazionale come in quella di classe dirigente. Un’oscura sensazione di minaccia, un “nemico invisibile”, interno ed esterno al tempo stesso…
Esigenza primaria, dunque, è stata dare forma a tutto questo, riportarlo a una dimensione distinguibile, ri-conoscibile e interpretabile. Nasce così l’idea di una doppia narrazione, sul piano della favola antica e della stilizzazione di alcuni ‘modelli’ attuali, quelli di un potere sentito sempre piú lontano, oscuro e minaccioso, che sia politico, tecnico o finanziario. Dopo un prologo in cui tutta la compagnia-comunità è sospesa, in attesa e preda di forze centrifughe e disgreganti, prende vita il doppio binario che farà da cornice alla spettacolo: durante una tempesta, un vecchio intrattiene la sua famiglia, raccontando una leggenda di contadini poverissimi, cui l’unica utopica dimensione di riscatto concessa è quella del mondo rovesciato nel carnevale e del suo sogno fantasmagorico. E se qualcuno dei giovani ascoltatori vi scorge assonanza con l’oggi, sarà compito di tutti uscire, aprire le finestre e le porte, guardare in faccia l’occhio del ciclone: si può sperare nella salvezza solo rivendicando la propria dignità di soggetti attivi, vivi, pensanti… Inizia così la nuova favola del Teatro Povero.